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Culture, Morali, Etica – Quale relativismo?

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di Fatos Dingo

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Fatos Dingo

I.
Questo scritto è il risultato logico della mia ricerca antropologica culturale che prende inizio, non negli anni degli studi universitari, ma da quando ero adolescente e vivevo sotto una tra le più feroci e assurde dittature dell’Europa: il comunismo albanese. La morale mi stava stretta, la “mia” cultura non mi bastava e l’etica era solo dentro di me, mentre all’esterno veniva identificata con la/le morali.  Durante il periodo di insegnamento di Antropologia Culturale agli studenti di Psicologia dell’Università di Firenze abbiamo vissuto l’emergenza decisionale sul fenomeno della Mutilazione Genitale Femminile entro una cornice contraddittoria accademica e politica; da una parte un estremismo relativista culturale che rischiava di scivolare verso un relativismo etico e dall’altra parte un’altrettanta estrema demonizzazione del relativismo culturale, a causa della confusione esistente tra termini cultura, morale e etica. 

Ma l’urgenza di dare una forma più articolata e forse compiuta è cominciata a nascere da quando mi sono trovato catapultato nella dimensione delirante della nostra realtà migratoria.  È da molti anni che presto il mio contributo ai nuovi “Ulissi” africani che approdano nel nostro “mondo bianco”: sembra che “il peso dell’uomo bianco (Kipling”) non abbia mai fine.  Mi sono trovato a fare il Maestro o l’Insegnante, il Mediatore Culturale, l’Antropologo Culturale, lo Psicologo o l’Etnopsicologo, ma soprattutto il Prossimo. E nel mio lavoro oscillo tra due estremità: soddisfazione totale o frustrazione estrema. Ma tralascio il concreto del momento delirante e passo a ciò che hanno fatto nascere in me le domande che rivolge all’immigrato il nostro “uomo bianco”:

Da dove viene? Perché è qui? In casa nostra. Qui dove noi siamo arrivati prima di lui. Perché ha intrapreso un atto così definitivo e sconvolgente, perché ha effettuato una” locomozione sociale” (Lewin) così profonda e simile a un vero rito di passaggio? Perché si è spostato da un luogo culturale verso un altro luogo, a volte più sicuro per la sopravvivenza ma a volte sconvolgente, contrastante, e a volte disgustoso, problematico o offensivo?

Generalmente la decisione di emigrare prende l’inizio da un problema culturale (economico, politico, famigliare), oppure diciamo morale. E “Noi” “bianchi” ci troviamo a decidere, con una sicurezza fittizia di chi sa di non sapere niente, se queste persone che fluttuano sui nostri mari in masse apocalittiche hanno una ragione “Etica” per scappare e per poter rimanere qui. Presso noi. Prossimi a noi. Le Commissioni Governative si costituiscono garanti etiche per distinguere ciò che diventa sempre di più indistinguibile: Chi può rimanere? 

Può fare domanda lo straniero che intenda chiedere protezione dallo Stato italiano perché fugge da persecuzioni, torture o dalla guerra, anche se ha fatto ingresso in Italia in modo irregolare ed è privo di documenti. Il richiedente dovrà motivare nella domanda le circostanze di persecuzione o danno grave che ne hanno motivato la fuga. 
Gli agenti di questa persecuzione o danno grave possono essere lo Stato, partiti o organizzazioni che controllano lo Stato o una parte del suo territorio o soggetti non statuali qualora lo Stato, o chi lo controlla, non vogliano fornire protezione alla vittima di persecuzione o danno grave.

In questa dicitura le commissioni tentano una definizione sommaria del senso etico, a differenza di quello politico, economico/morale/culturale, ma peggio che mai individuale/personale.

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Contemporaneamente, e come dimostra l’identificazione etimologica tra i due termini, il “problema” del migrante si rivela anche un “progetto”. Ma chi come noi, che si crede di essere al riparo, non immagina che ogni Ulisse, dal momento della partenza fino all’incontro con l’Altro, pensa al ritorno. Anche quando la coscienza fa credere al suo Io di volere rimanere dove sta approdando, fuggire da un ambiente Non più Famigliare/Perturbante, Unheimlich (Freud). Il sogno segreto o meno segreto di ogni Ulisse senza nome è quello di ritornare al Familiare, Heimlich. Per poter di novo mangiare il proprio cibo che noi chiamiamo “etnico”, comportarsi in modo familiare, seguire regole culturali e morali conosciute, essere a “casa propria”.

Sappiamo che le culture non viaggiano. Non sono le culture che si spostano in massa; sono gli individui appartenenti alle culture che viaggiano. Le culture non si incontrano e nemmeno si scontrano. Sono le persone rappresentanti di quelle culture che intendono e desiderano questo incontro/scontro. Sono le persone che importano modelli relazionali simili o dissimili, credenze culturali o morali che tendono spesso a presentarsi come “principi etici”. Al momento di questo incontro vicario tra le culture si avvia un processo psico-sociale cognitivo emotivo di necessario riconoscimento e di tolleranza culturale e morale. Si presenta il terreno per esercitare l’operazione cognitivo-emotiva della relativizzazione.

III.

Ma quale relativismo? Decisivamente “culturale”, ma anche altrettanto decisivamente “morale”. Mai “etico”!!! e il rischio sta nella confusione di questi due termini: Morale e Etica. E ora cominciamo a districare il terreno semantico, filologico, filosofico e antropologico nel campo del trio conseguenziale: CULTURE, MORALI e ETICA.

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Husserl adoperava il concetto di intenzionalità (derivandolo da Brentano) come strumento euristico della propria ricerca presentando un mondo fenomenico fatto di esperienze vissute attraverso la coscienza (Erlebnisse), esperienze queste che “hanno, in qualche modo, intenzionalità”. Questa intenzionalità è stato quel primo slancio creativo umano che, dalla preistoria ad oggi, ha prodotto infinite forme culturali. Per più di due secoli gli studiosi del campo antropologico e degli altri ambiti umanistici hanno fatto oggetto dei loro studi il fenomeno dinamico e complesso della cultura. Si accettava largamente l’idea che tutto ciò che era prodotto della psiche umana fosse cultura e la cultura veniva contrapposta al concetto di natura. Così, più lontano dalla natura si trovava un collettivo più alta si considerava la sua cultura o la sua civiltà. Il progresso e lo sviluppo venivano misurati con la distanza dalla natura e con il potere della ragione e della logica. Seguendo il criterio della ragione si definivano le “società prelogiche” (Lévy-Bruhl,1922), distinte nettamente dalle civiltà “logiche“.

Nel 1871 l’inglese E. B. Tylor (1832-1917) apriva la sua opera Primitive Culture con la definizione di ciò che si doveva intendere come cultura, cioè “quell’insieme complesso che comprende il sapere, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società”.  Come afferma Chiozzi, e similmente alla mia ipotesi sul carattere dinamico del concetto di identità in generale, uno degli aspetti più interessanti della definizione tyloriana, “e che sembra sia sfuggito alla maggior parte dei suoi commentatori, consiste nella sua concezione dinamica della cultura e nelle inevitabili implicazioni teoriche e metodologiche”. Ciò che Tylor accentua e definisce come “dinamica interna” propria di ogni cultura lo intendo come un insieme di vettori intenzionali, oppure inconsciamente esperiti in sviluppi esistenziali continuativi, di carattere psichico e sociale, percepibili come naturali e ereditabili. E ciò che è percepito ha tanto valore quanto ciò che esiste “realmente” e “concretamente” in ambito di fatti di coscienza o di fatti umani.

Franz Boas si spinge oltre e afferma che “la cultura può essere definita come la totalità delle reazioni e delle attività psichiche e fisiche che caratterizzano il comportamento degli individui i quali compongono un gruppo sociale – considerati sia collettivamente sia singolarmente – in relazione al loro ambiente naturale, ad altri gruppi, ai membri del gruppo stesso, nonché quello di ogni individuo rispetto a se stesso. Essa comprende anche i prodotti di queste attività e la funzione che essi assolvono nella vita dei diversi gruppi. La cultura non si riduce tuttavia alla semplice enumerazione di questi vari aspetti della vita; essa è qualcosa di più, perché i suoi elementi non sono indipendenti ma possiedono una struttura.”(corsivo dell’autore). In questo “qualcosa di più” possiamo leggere una Gestalt culturale percepita consapevolmente o avvertita attraverso l’inconscio degli individui e gli archetipi collettivi come una configurazione unitaria particolare che soddisfa i bisogni intimi culturali di appartenenza e gli interrogativi degli uomini riguardo all’esistenza in generale.

Schopenhauer affermava che “i concetti sono rappresentazioni di rappresentazioni” e “ogni concetto, essendo una rappresentazione astratta e non intuitiva, e quindi non del tutto determinata, ha quella che chiamiamo un’estensione, una sfera…” e “la sfera di un concetto ha sempre qualcosa di comune con la sfera di un altro, e cioè che quando si pensa a un concetto si pensa in parte anche all’altro e viceversa”. É ciò che succede quando operiamo con i successivi termini: Morale e Etica.
Sottolineo le forme in plurale di Cultura e Morale e non dell’Etica, per il fatto che le prime si possono relativizzare, l’ultima no. Anche se per paradosso in inglese si trova il termine ethics, cioé “etica” in forma plurale.

Le morali propongono valori e regole, norme generali e, soprattutto divieti, che servono come guida dei comportamenti umani e vengono condivise da parte di gruppi socio-culturali in una determinata epoca storica. L’etica invece dovrebbe essere per l’occidente la dottrina filosofica che ha per oggetto queste regole e questi valori ma in senso più profondo dovrebbe superare la storicità della morale per andare alla ricerca degli universali e dei referenti esistenziali. Nella storia della filosofia i due aspetti si presentano strettamente intrecciati, nonostante l’esistenza di teorie etiche prevalentemente descrittive, come quella di Aristotele, o prevalentemente normative, come quelle di Platone, degli stoici e di Kant. 

Le culture hanno prodotto nei secoli regole e Morali che vengono soppiantati prima o poi da altre regole morali più adatte all’imitazione dell’Etica, la quale si presenta come universale, simile o meglio dire ancorata a quel referente Bio-Antropologico: conservazione e promozione della vita. Come abbiamo già detto, a volte i concetti si presentano come sinonimi quasi identici. È ciò che avviene con i termini “morale” ed “etica”.  Il Latino prende il termine “ethica” dal greco antico ἠθική ‎(ēthikḗ), ἠθικός ‎(ēthikós, “morale”). Ma in filosofia l’etica si scosta dalla morale perché si prefigge una ambiziosa ricerca nello studio dei principi che costituiscono la base della distinzione tra il bene e il male nel comportamento e nelle relazioni umane. L’etica dovrebbe cercare i fondamenti razionali che permettono all’uomo, a differenza degli animali, di assegnare ai propri comportamenti uno status deontologico, ovvero distinguerli in buoni, giusti, o ingiusti e cattivi secondo un ideale modello comportamentale. Ma la confusione nasce dal fatto che troppo spesso si crede che l’etica si basa sulla/le morale/i per definire cià che è buono o cattivo (καλοκαγαθία). È come se dicessimo che il Sole brilla meglio se viene indicato da dita migliori.

L’etimologia del termine morale ci fa credere di avere a che fare con un vero e proprio sinonimo del primo termine, ma derivato direttamente dal lat.morāle(m), deriv. di mōs mōris ‘costume’, cioè proprio costruito sul modello del gr. ēthikós ‘etico’, deriv. di êthos ‘uso, costume’;
Per chiarire il profondo divario semantico che è avvenuto col tempo tra i due termini apparentemente sinonimici proporrei come comparazione due coppie di termini molto usate nella vita quotidiana e che esprimono chiaramente una contrarietà profondo, anche se semanticamente sono identici. La prima è “Paura-Fobia (Fobia in greco significa semplicemente “paura”, mentre in italiano significa “paura eccessiva, infondata, patologica”), e l’altra, meno evidente, è Progetto (dal latino Projectus) e Problema (dal greco proballo); tutte e due con il significato di “qualcosa gettata d’avanti”.

Ma per uscire dalla nostra abitudine culturale occidentale possiamo fare un excursus nel mondo orientale. In cinese: Morale – 道德 Dàodé ( 道 Dào = via, sentiero, dottrina, metodo, Tao, principio, supposizione e 德 Dé = virtù, cuore, gentilezza, favore, moralità), giaponese dōtoku 道德(alta moralità) che sembrerebbe il sentiero per raggiungere o tendere verso l’Etica – 倫理 Lúnlǐ (倫 Lún = relazione, parentela, tessuto e 理 Lǐ = ragione, verità, logica, scienza naturale, conoscere, mettere ordine) e il giaponese rinrigaku 倫理學 (relazionalità). Nella storia cinese, lunli e daode non sono mai stati interpretati come diversi, ma come gemelli di significato. I termini rinri e dōtoku passarono da Giappone a Cina durante l’ultimo periodo della dinastia Qing, quando la teoria dell’etica occidentale (di cui non ne parlo perchè non credo ci sia bisogno) cominciava a penetrare anche in Cina. Cai Yuan-pei (1867–1930) (La Creazione dell’Etica Moderna in Cina e Giappone) assimila il metodo occidentale e seguendo il corso degli studi giapponesi nella sua “Storia dell’Etica Cinese” (中國倫理學史, 1901), cerca di trovare la corrispettiva traduzione ai termini occidentali di etica e morale. 

Come educatori, Inoue Tetsujirō e Cai Yuan-pei erano stati mandati in Germania dai loro corrispettivi governi per studiare l’Etica occidentale. Dopo il loro ritorno in patria, tutti e due dedicarono con entusiasmo il loro contributo per integrare l’Etica Occidentale all’interno dell’Università di Tokyo e Pechino. L’indistinzione tra morale e etica, volutamente creata dai re e gli imperatori, e promossa fortemente da parte di Confucio, cominciava ad essere messa in discussione. 

Tetsujirō era il primo professore giapponese del dipartimento di filosofia dell’Università di Tokyo a pubblicare un testo sull’Etica, Una nuova interpretazione dell’Etica (倫理新說』, 1883). In un breve trattato di sessanta tre pagine il filosofo giapponese afferma che l’etica ha a che fare sia con i principi della pratica che con le norme della pubblica educazione. 

“Non c’è bisogno di discutere sul come ottenere la felicità oppure quali sono i comportamenti che portano ai problemi dell’esistenza; noi abbiamo bisogno di esplorare il perché del perseguire umano della felicità come ultimo obiettivo.” (Inoue 1883, 415) Perciò la struttura dell’etica secondo Tetsujirō è costruita sulla base della ricerca umana dell’obiettivo finale: il Bene. L’Oriente comincia ad inetrrogarsi sul Bene e sul Male a modo occidentale dopo questa conoscenza filosofica relaticamente recente, metà novecento. Ma dalla saggezza semantica e visuale degli ideogrammi cinesi si può ricavare un percorso circolare e progressivo tra Morale e Etica, come un metodo, o via, o sentiero dottrinale che apre la strada verso una Logica, o Ragione della Relazione tra l’Io e l’Alterità, o il Prossimo. Nel Capitolo della Musica del Libro dei Riti si dice che “tutte le modulazioni del suono sorgono dalla mente umana; la musica è l’intercomunicazione tra di loro in quanto relazioni e differenze.”

倫理 (Lúnli) quindi si presenta come l’insieme di quei principi in cui le cose si riflettono come comunicazione attraverso Relazione e Differenza. Ma essenzialmente Lúnlǐ esprimerebbe il principio di ogni tipo di Relazione. Riferendoci alla vita come “referente antropologico” (Chiozzi) possiamo affermare che è solo l’Etica, e non le Culture e nemmeno le Morali, ciò che rimane Universale da raggiungere, attraverso i nostri tentativi culturali e morali.

IV.
Concludo con la risposta che diedi alla domanda di un ragazzo di Liceo di La Spezia durante un incontro sulla Diversità: “Le sembra giusto che Francia risponda alla violenza fondamentalista con violenza? Alle bombe con bombardamenti?” Gli risposi senza indugiare: “Dai a Cesare ciò che è di Cesare!
E ora penso, sì! Sì! La Morale é un livello intermedio tra l’umano e il cosiddetto “divino”, tra il Bisogno e il Desiderio, tra la Sopravvivenza e la Realizzazione. Il miglior Cesare promuove il miglior livello morale. Ma sempre Imitando l’Etica. E come diceva Thoreau : “Il miglior governo è quello che governa meno”.
Se stabiliamo dei livelli fondamentali di riconoscimento in ogni incontro tra un Io e un Altro possiamo dire che la Tolleranza (Etnografia), la Comprensione (Etnologia) e l’Accettazione (Antropologia e Teologia) corrispondano corrispettivamente a Cultura, Morale e Etica. 

Fonti e Bibliografia

Amerio, P., 1995 Fondamenti teorici di psicologia sociale, il Mulino

Bandura, A., 1990 Selective activation and disengagement of moral control, Journal of Social Issues, 46 

Brentano, F., (1874) Psychologie vom empirischen Standpunkt (Psicologia dal punto di vista empirico), Leipzig

Cai Yuan-pei 蔡元培 1901 (中國倫理學史) [History of Chinese Ethics] (Shanghai: Shangwu). 

Chiozzi, P., 2008 Antropologia della libertà, Bonanno Editore

Dingo, F., 2007 Identità albanesi, Bonanno Editore

Dingo, F. e Tucci, M., 2009 Contro l’autostima, Bonanno Editore

ΕΕΦ, Μονοτονικό λεξικό της δημοτικής,, Γ.Λαδιας&Σια, Αθηνα

Freud, S., 1977 Il perturbante, in Opere, Vol.IX, Boringhieri (1919)

1977 Al di là del principio di piacere, in Opere, Vol. IX, Boringhieri 1977

Hiedegger, M., 1978 Essere e tempo, UTET (1927)

Husserl, E. 1965 Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi (1912-1928)

Kant, I., 2003 Fondazione della Metafisica dei Costumi, a cura di Vittorio Mathieu, Bompiani

1981 Critica della Ragion Pura, trad. di Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo-Radice, Laterza

Inoue Tetsujirō 井上哲次郎 1883 (倫理新說) Nuova interpretazione dell’etica 1883, 明治文化全集1992 (vol 23) 

Lévy-Bruhl, L., 1966 La mentalità primitiva, Einaudi

Pianigiani, O. 1921) Vocabolario etimologico della lingua italiana, Fratelli Melita Editori (1907)

Scheler, M., 1913-1917 Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori

Schopenhauer, A., 1991 Il mondo come volontà e rappresentazione, Mursia (1819)

Thoreau. H.D., 1849 Civil Disobedience

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