MËMËS
U rrita, ma sistë jotat,
një pikë klumështi,
një fialë arbëreshe,
… e u bëra burrë.
Nëng u dhënova oj më,
po u t’i shkula,
atò katar fialë,
u të i vodha,
… se nëng i dija.
Ndë vreshtë e dhè,
të më lësh nëng kè,
ëm atë çë më përket:
ëma ajò gluhë arbëreshe!
Ëmi atò fialë, një a një,
si pika klumështi,
po ëmi arbëreshe,
jò…tjetar mos më jip!
Mos vdis!
Adhe ndë të thërret Zoti,
mos vdis!
Apara kët më japësh
atë çë më përket :
atò katar fialë arbëreshe!
Të jetë kurr! Të thërret Zoti,
dua të jem atje:
ma një lot e një shërtim,
u bënj vesh!
Dua të t’marr:
t’sprasman fiala arbëreshe.
LA LINGUA MADRE
Sono cresciuto, al tuo seno / una goccia di latte, / una parola arbëreshe… / e s’on fatto uomo. / Non ti sei accorta oh mà, / io te le strappai / quelle quattro parole, / te le rubai… / perchè non le sapevo. / Se vigne e terre / da lasciarmi non hai, / dammi quello che mi spetta…/ dammi quella lingua arbëreshe. / Dammele quelle parole, una ad’una / come gocce di latte, / ma dammele arbëreshe, / nò... altro non darmi! / Non morire! / Anche ti chiamasse Iddio, / non morire! / prima devi darmi / ciò che mi spetta… / quelle quattro / parole arbëreshë! / Non sia mai! / Ti chiamasse Iddio, / voglio esser’lì, / tra una lacrima ed un sospiro, / ti ascolterò! / voglio prenderti… / l’ultima parola arbëreshe.
I URTI SHKRIMTAR
Bojku: i urti shkrimtar
ma suluni - kallam i holl -
grian dhèrat, t’thata, t’egëra
si mbi lëpush shtruar ta dialli
shkruan një storia a vjetër:
“Avilaqa potisur nga djersit
plëh, mbrujtur nga lodhja
- si ndë një magja drurishë -
mbi kurmi i përulur bojkut”.
Palodhëshëm
këndon cënxëran
dimërit i panjohur.
IL SAGGIO SCRITTORE
Il contadino: saggio scrittore, / con l’aratro - fine calamo - / graffia le terre, arse, selvagge, / come su foglio disteso al sole / scrive una storia antica: / “Solchi bagnati dai sudori / polvere, impastata dalla fatica / - come su madia di legno - / sul corpo curvo del contadino”. / Canta la cicala, allo sconosciuto inverno.
HORA IMA VЁDES
- Hora ima vëdes,
si një mëmë çë... a harruar
nga t’bilët, llargu mërguarë.
- Hora ima vëdes,
si një mëmë çë, vetam e pa lot
kla të bilët të mërguar nga mot.
- Hora ima vëdes,
si kjo mëma, a fort, mendon:
“Im bir, gluha ima, a kujton?”
- Vëdes kjo a bukura horë,
e plaka, turp i madhë, klan
i biri çë gluha jona na shan.
- Vëdes, dëbirat kjo horë,
si i biri çë, a madhe andirì
më jëman nëng ve më kufì.
- Vëdes, a bukura, a vjetër horë,
si një mëmë, shehë e thotë:
“I bëra u? Mua nëng më ndot!”
- Hora ima... vëdes,
vëdes mëman çë lindi fëmilë t’huaja
çë thonë: “Kjo gluhë... nga! Shuaja!”
- Vëdes! U hujtin, fëmilë ma meri!
Torzë shtratit, murmurìm i pandëlguar
t’nëmur! Jo më t’bakuar:
“Po nga jëma... të mallkuar!”
IL MIO PAESE MUORE
Il mio paese muore, / e come madre dimenticata, / dai figli lontano lasciata. / Il mio paese muore, / come madre che - senza lacrime - / piange i figli da tempo emigrati. / Muore il mio paese, / come madre –gran coraggio- pensa: / “Mio figlio, la sua lingua ricorda?” / Muore il mio bel paese, / muore la vecchia - gran turbamento - piange / il figlio che la sua lingua disprezza, spenge. / Muore, si perde questo paese, / come il figlio che -grande vergogna- / più alla madre sguardo non ritorna. / Muore, antico, bel paese, / come madre vede, rimembra: / “Da me son nati..? Nò non sembra!”. / Il mio paese... muore, / muore la madre che partorì figli stranieri, / di altra madre, di altra lingua prigionieri. / Muore! Si son fatti stranieri, miseri figli! / Accanto al letto... incomprensibili... mormorii / dalla madre non più benedetti: / “Ma dalla madre.... maledetti!”
Prof. Italo Costante Fortino scrive:
Ze njé pastan e re
Nasce una nuova vigna
Una raccolta di poesie racchiude sempre un mondo criptato che, quale espressione di arte, ha bisogno di essere sondato e decodificato per una giusta fruizione.
La poesia di Tommaso Campera, racchiusa nelle liriche della presente raccolta, si inquadra nella cultura degli albanesi d'Italia e va a porre un'altra pietra preziosa alla tradizione letteraria, già affermata lungo il percorso di ben 500 anni di permanenza attiva degli Albanesi sul territorio del Mezzogiorno d’Italia. Nell'ambito delle culture minoritarie, inserite in contesti di culture più prestigiose — cosiddette “più prestigiose” per pure categorie sociologiche - ogni voce poetica che si eleva va registrata, ascoltata con attenzione, e apprezzata, perché è testimonianza di una presenza storica e perché arricchisce il patrimonio letterario, anch'esso testimonianza di una presenza di notevole interesse.
La voce di Campera in questo quadro è importante per due ragioni: 1) perché è una voce singolare che si eleva dalla comunità arbéreshe di Maschito, una pittoresca comunità ancora oggi albanofona, per affermare la sua vitalità culturale; 2) perché è un contributo alla creazione letteraria e rappresenta una tessera interessante che va ad arricchire il mosaico letterario degli albanesi d'Italia. La poesia si incarna nell'espressione popolare della parlata di Maschito, e non disdegna i panni tradizionali, la varietà dei colori dell'espressività di una gente con una propria esperienza, una propria cultura, una propria sensibilità e una propria visione della vita. Alla valenza linguistica e letteraria, si aggiunge quella antropologica che spazia tra passato e presenta e connota la cultura di una comunità nella sua evoluzione.
Visione poetica
Lo scrittore Giulio Varibobba del XVIII secolo, per dare risposte alle aspirazioni della gente che manifestava il desiderio di vedere espressi sentimenti e concetti nella lingua comprensibile del quotidiano, scrisse un'opera nella parlata del suo paese, S. Giorgio Albanese (CS), e poiché era “poeta nato” compose un monumento all'arte poetica!. Girolamo De Rada, del secolo successivo, indagò nella letteratura orale, ne scoperse i valori, ne raccolse una ricca silloge che pubblicò nel 1866° e, basandosi su quel ricco patrimonio letterario orale, seppe comporre opere — / Canti di Milosao; | Canti di Serafina Thopia; Skanderbeku i pafàn® — che avrebbero toccato l'apice dell'arte della letteratura albanese sorta sia di qua che di là dell'Adriatico.
Nel XX secolo la stessa poetica plasma l’opera letteraria di Vorea Ujko, quando l'Autore s'avvede che un mondo sommerso urge e diventa ispirazione prepotente che gli avrebbe fatto creare pagine di vera poesia e di profondi sentimenti: Zgjimet e gjakut (I sussulti del sangue)’.
Questi tre esempi di poesia rappresentano, staccati nel tempo, una costante poetica dove ad agitare la creazione artistica è la cultura secolare arbéreshe, quella che si è tramandata oralmente attraverso le generazioni ed è rimasta viva fino al tempo presente.
La poesia di Tommaso Campera segue la stessa genesi: lo sviluppo della sua vicenda esistenziale l'ha visto sradicato dal suo paese di origine, Maschito, e inserito in un conteso sociale e culturale diverso, più evoluto e più ricco di prospettive. Sembrava che ormai si fosse tutto concluso col benessere che la nuova realtà gli aveva fornito, quando il richiamo alle origini incomincia a urgere, a fare sentire impellente il legame con la prima fase della sua vita, quando si sono impresse le immagini e le esperienze indelebili del primo uomo. Il tempo e l'esperienza del nuovo mondo, intanto, avevano. fatto quasi dimenticare i meccanismi del primo eloquio. Quasi una patina stava per coprire un mondo che ormai non aveva più alcun ruolo nell'ambito del nuovo stato sociale. Ma quella cultura delle origini era dentro di lui e fuori di lui, là a Maschito, quella cultura che in ogni suo ritorno appariva viva, e nonostante sopita, ancora parlava con un suo linguaggio distinto e dal timbro marcato.
La poesia di Tommaso Campera passa attraverso alcune tappe che connotano un percorso. La riflessione poetica si sofferma sul “tempo”, passato e presente, sul concetto di “terra” e di “appartenenza”, sul concetto di “ritorno” e di “paese”, mentre aleggia su tutto lo spettro dell'emigrazione nei suoi aspetti positivi, di riscatto e di benessere, ma anche negli aspetti critici, degli effetti dello sradicamento culturale, della rottura col mondo degli affetti, con le immagini più care della prima fase della vita, della rottura col mondo allogeno di appartenenza, difficilmente ricreabile nella nuova realtà.
Le parole arbéreshe
Quella cultura delle origini assorbita negli anni dell'infanzia in Tommaso Campera non è riuscita a scomparire. Anche la lingua dell'infanzia, presto abbandonata, non si è cancellata col tempo, perché la forza
del processo di trasmissione gliel'ha consegnata in eredità. Ad alcuni si dà in eredità il terreno produttivo, ad altri il denaro: il Campera pretende dalla madre come eredità la lingua arbéreshe.
Pregnanti in tal senso suonano i versi in cui l'Autore racchiude la sua pretesa:
Ndé vreshtè e dhe
té m'lésh néng ke
ém até gé mé pérket...
éma até gluh arbéreshe!
Emi ato fjalé, njé a njé
... Si thithuré klumshti
po émi arbéreshe,
jo, tjietar mos mé jipé! (Gluhan a mémés)
Se vigne e terre
da lasciarmi non hai,
dammi quello che mi spetta... dammi quella lingua arbéreshe! Dammi quelle parole, una ad una ... Come gocce di latte,
ma dammele arbéreshe,
no, altro no, non darmi!
La metafora della parola arbéreshe pone il Poeta di fronte a due mondi, entrambi indispensabili e, nella sua visione, tra loro conciliabili. I desiderio di appropriarsi, in quanto di sua pertinenza, della cultura dei genitori, e in maniera più estesa, della cultura della gente del paese di appartenenza, non va a contrastare con la terra e la cultura di approdo. La cultura delle origini ha una funzione di prioritario valore perché è parte integrante della personalità: è un'eredità che spetta e che contribuisce all'equilibrio necessario per la crescita armonica dell'individuo e della comunità. Anche il processo di inserimento e integrazione in contesto diverso da quello d'origine non contrasta con la valorizzazione della propria identità, anzi, rafforzando la consapevolezza che nell'incontro con il diverso da sé l'individuo non perde i propri connotati, lo predispone ad apprezzare la varietà delle culture e delle lingue. Certamente nel contatto e nell'incontro di culture diverse, è inevitabile che avvenga una forma di confronto, e perché no anche di scambio e in determinate situazioni anche di indebolimento di una cultura o di una lingua rispetto all'altra, proprio per via di mutate esigenze sociali e contestuali di funzionalità o meno di un codice rispetto all’altro. Ciò, tuttavia, non autorizza a permettere che la cultura più debole venga sepolta sotto le macerie prodotte dalla imperversante globalizzazione. Il rapporto economia/cultura, non sta sempre in equilibrio e, se lo sbilanciamento favorisce il primo elemento ne soffre il secondo e con esso ne accusa le conseguenze la personalità degli individui. E quanto si immaginava fosse un vantaggio, anche per la stessa economia può diventare un ostacolo. in questa prospettiva appare forte il legame del Poeta con la storia, col passato, con la cultura degli avi, con quella dei genitori, con quella della madre. Il Poeta diventa espressione della resistenza della cultura d'origine, in ogni contesto culturale e in ogni situazione. Anche nel momento in cui la madre sta per sputare Egli, il Poeta, è là a cogliere l'ultima parola arbéreshe:
Mos védis!
Adhe ndé t'hérret Zoti
.. mos védis!
Mé par két mè japéshé até cè m'pérket...
ato katar fjalé arbéreshe!
Dua tè t'mar...
a sprasman fjalè arbèéreshe! (Gluhan a mémés)
Non morire!
Anche ti chiamasse Iddio
.. non morire!
Prima devi darmi
quello che mi spetta...
quelle quattro parole arbéreshe!
Voglio prenderti... l'ultima parola arbéreshe!
Egli, il Poeta, è consapevole di avere dimenticato non una ma tante parole che da piccolo aveva appreso col latte della madre. Con le parole ha dimenticato anche tanti aspetti di quella antica tradizione culturale che si è sempre trasmessa oralmente, proprio nelmodo come poeticamente e metaforicamente è descritto nei versi succitati.
Il poeta è anche consapevole, però, di un altro fenomeno che gli crea non poca ansia: quella trasmissione che lui ha ricevuto dalla madre, in un processo dapprima del tutto naturale, in cui le gocce di latte s'intrecciano alle parole arbéreshe, poi, diventato uomo e constatati i vuoti linguistici che ha, sente l'esigenza di riprendere, sempre dalla madre, quelle parole che non sa. Il forte desiderio di appropriarsi della lingua è tutta espressa in due versi, il primo quando il Poeta riferendosi alle parole arbéreshe dice po u ti shkula (te le strappai), il secondo quando aggiunge con un verbo ancor più incisivo u t' vodha (te le rubai), non certo per l'opposizione della madre, quanto invece per evidenziare la grande forza che sente in sé di fare proprio quel prezioso patrimonio espressivo.
Il ritorno
Il fenomeno del “ritorno” è un topos che si verifica realmente 0 metaforicamente nella vita di ogni uomo. Tanto più reale è in chi ha lasciato la terra della propria cultura, degli affetti, la terra del proprio abitato, del mondo che ha lasciato tracce profonde nel suo animo. si tratta di tracce mai colmate, ma sempre evidenti, anche nei momenti più alienanti dell'esperienza umana. Questa continuità nel profondo non ha cessato mai di esistere, e si evidenzia in modo palese quando l'incontro diventa di nuovo esperienza. E' in questo momento che le sensazioni si spogliano di ogni metafora e svelano l’intima realtà, come quando il Poeta constata con senso del reale, ma anche con sorpresa, perché sta quasi squarciando il velo del tempo: Nani jam kétu (Adesso sono qui). In un attimo la verità del profondo diventa nuova esperienza, rinata visione densa del peso del tempo che ha sedimentato, sullo strato primario, altre sensazioni che hanno creato un mondo interiore composito. La sorpresa compiacente che nasce nel poeta è quella di provare che quei luoghi e quelle persone non li ha mai abbandonato, sono rimasti intatti, non toccati dal tempo:
... Kéta gura kéta gjitoni néng i lora kurr (Nani jam kétu)
... Queste pietre questi vicinati non li ho lasciati mai
| luoghi a lui cari, dove ha imparato a conoscere il mondo esieme alla famiglia, sono rappresentati emblematicamente dalle pietre”, un'immagine poetica semanticamente molto espressiva e familiare a chi conoscela durezza della vita; mentre la pulsazione delle sensazioni, i legami che attanagliano le persone per la sintonia dell'esperienza quotidiana è tutta racchiusa nella concezione del “vicinato”, definibile come quattro porte che si aprono su una piazzetta, un luogo di comunicazione e di scambio delle esperienze interpersonali e interfamiliari. Là dove si è sviluppata la prima socializzazione, il ritorno racchiude un cerchio, di per sé, mai aperto. L'appartenenza a quel mondo sembra avere creato uno stato di impermeabilizzazione alle esperienze successive. E’ certamente l’effetto nostalgico che detta immagini forti e che crea uno scenario che riporta alle origini come passaggio inevitabile nel processo di rigenerazione. Trovano, in questo processo, giustificazione le visioni del mondo del lavoro, quelle stesse che hanno inciso nella mente e nell'animo del ragazzo perché troppo importanti nella fatica per la sopravvivenza, ora comprensibilmente rese care dalla distanza del tempo e dalla trasformazione della potenza dell’arte poetica. Così come eroicizzate appaiono le figure dei protagonisti della vita quotidiana, i lavoratori, quegli artefici della produzione del benessere dell’essenziale per la vita, una vita che ora si ammanta di poesia irradiata dal sentimento di appartenenza. La visione del campo di grano dorato, accarezzato dal vento, quale pettine d’argento, e maturato dal sole di maggio, è un richiamo tangibile all’operosità dell’uomo che miete i fasci di spighe e alla donna che li raccoglie, quali mazzi di fiori. Da qui la considerazione finale che racchiude la visione che ha l’uomo della fanciullezza, impressa in maniera indelebile nella visione dell’uomo diventato adulto, secondo cui “ sudori... si son fatti pane”: djersaté... u béné buk. Nell'immaginazione del Poeta il lavoro, quello più duro che è tutto racchiuso nel sudore del protagonista, è la forza perenne che scrive la storia vera che interessa ogni essere umano. Nel misurarsi con un tema dai contorni ovvi e quotidiani, è l'intreccio di immagini, similitudini e metafore che rende originale il messaggio del Poeta elevandolo nella sfera dell'arte. E' la penna fine - l'aratro “fine calamo” - dell'operatore agricolo, il contadino, che scrive sul “foglio disteso al sole” la storia più antica dell'uomo. Il ciclo dell'uomo si intreccia con quello dell’anno, mentre l'immagine plastica dei solchi di sudore che lasciano tracce sul corpo ricurvo del contadino rende bene il legame che accosta il lavoro della terra con la fatica. Anche il titolo della lirica / urti shkrimtar (Il saggio scrittore) sta a indicare con pregevole metafora la scrittura della storia che avviene, giorno dopo giorno, e si compone come il romanzo del vero scrittore.
La diaspora
La consapavolezza dello stato di diaspora è insita nell'uomo arbéresh in quanto questi, ripercorrendo la storia, trova la sua provenienza nell'altra sponda adriatica e rivive le tragiche conseguenze di uno spostamento di gente incalzata da una potenza occupatrice delle terre paterne. Quest'esperienza vissuta a livello di immaginario e di proiezione storica, diventa esperienza viva nel momento in cui l'uomo arbéresh per ragioni economiche si sradica dal proprio paese, lascia parenti anziani e le mura dei ricordi per trasferirsi in centri urbani che offrono sì occasioni economiche, ma producono scompensi di adattamento e frantumazione del sistema culturale che si era ormai consolidato. Da qui il grido del poeta che, trovandosi di fronte.a due mondi, quello tradizionale in via di dissolvenza e quello della nuova economia che spinge il primo all'omologazione, non sa trattenere lo stupore, la protesta e lo stato profondo di disorientamento. Ritorna, pertanto, con insistenza l'immagine delle pietre, simbolo della resistenza e al contempo del deserto. Ed è proprio il paesaggio delle pietre che compongono un paese, quello delle case, delle vie, spazzate dal vento, lavate dalla pioggia o coperte dalla neve, a svelare la solitudine causata dall'allontanamento degli abitanti che ne formavano l'anima. Il poeta vi fa ritomo e ama muoversi in quella quiete spettrale con un vortice di passione nostalgica, tutto racchiuso in un sintagma secco e di sfida: u | ecinj (io le attraverso). Anch'egli, il poeta, quasi residuo archeologico, diventa pietra consumata dal ‘ tempo, resistente al tempo (Cfr. la poesia Gura). Questa vision dà subito la dimensione della gravità del risvolto che coinvolge l'abitante di quelle pietre. Il dramma non interessa solo il paese simboleggiato da quelle pietre, che rimane deserto perché gli abitanti si sono trasferiti altrove, ma quelle stesse forze umane produttive che allontanandosi dal luogo d'origine, col tempo hanno dimenticato il paese, la cultura d'origine, la lingua materna e quel che è più grave hanno dimenticato la stessa madre. La diaspora ha provocato anche questo stato sconvolgente: una rottura profonda venuta a strappare gli abitanti dalle case paterne, i figli dai genitori. Il grido allarmato del poeta s'incarna nel ritmo ripetitivo del verso, che è anche titolo della lirica, Hora ima védes (Il mio paese muore). Col paese muore un mondo, quello più caro al poeta, una parte importante di sé se ne va per sempre. E questo è inaccettabile, crea una rivolta interiore matura nel poeta una consapevolezza rigenerante e lo porta al ritorno di cui abbiamo accennato prima: il ritorno alla cultura d'origine, alla lingua della madre, ai valori della tradizione e alla visione che vuole conciliare passato e presente.
L'espressione linguistica
La poesia del Campera, nelle tematiche portanti, ci riporta inun mondo arcaico che ha continuato ad esprimersi con ricchezza di contenuti fino ad oggi. Forse alla generazione più giovane può apparire un fenomeno singolare e isolato, e in ultima analisi, nella considerazione comune, senza uno spessore che possa reggere al confronto con i grandi fenomeni del mondo globalizzato attuale. E', infatti, frequente la percezione che può dettare l'accantonamento di una cultura e di una lingua arcaiche perché ovviamente poco funzionali.
L'intenzione, tuttavia, del Campera non è solo quella di insistere sulla cultura e sulla lingua del passato, ma di confrontarsi anche con il presente in tutti i suoi risvolti. La ricerca dell'espressione poetico- linguistica nasce proprio dalle considerazioni sullo stato presente, dalla riflessione su una cultura che si è trasmessa per cinque secoli e da una lingua che, senza particolari strutture di sostegno, è ancora parlante. Da qui una poesia delle origini e una lingua anch'essa delle origini, arcaica e allo stesso tempo innovata, fievole per alcuni aspetti ma robusta per altri nell'esprimere particolari sensazioni legate al mondo di appartenenza. Solo quellatingua, in stretta connessione con gli oggetti, con le idee, con i comportamenti, con gli stili di vita, riesce a rappresentare, unitamente ai suoi suoni particolari, la concezione poetica e le emozioni che si concretizzano nella poesia del Campera. Lontana dalle vibrazioni del testo albanese è la traduzione italiana, opera dello stesso autore. Questa rappresenta concetti e sensazioni con suoni che nell'immaginario dell'arbéresh appaiono generici, appartenenti ad altra cultura, mentre il testo albanese crea l'atmosfera unica che appartiene solo a quella cultura, a quell’ambiente, a quel modo di sentire. Sono i suoni della lingua arbéreshe ad evocare un concetto che contiene in sé dettagli propri, connotazioni uniche.
La lingua del Campera è quella che si parla ancora oggi a Maschito che lui valorizza in tutta la sua potenzialità, andando a recuperare frammenti lessicali eventualmente in dissolvenza o dimenticati. Il tentativo ben riuscito del restauro lessicale, in cui la radice di un toponimo che ha resistito al tempo fa comprendere altri termini derivati, si allarga alla polisemia e alla varietà terminologica.
La struttura grammaticale si presenta per alcuni versi variegata: da un lato mantiene i tratti conservativi fonetici, dall'altro accusa innovazioni che riducono la varietà delle forme nella flessione del nome con tendenza al sincretismo dei casi.
Dalla lettura delle liriche di questa raccolta, è facile cogliere i nessi consonantici arcaici /KI/, /gl/ che connotano la parlata di Maschito, le parlate degli altri centri albanofoni della Basilicata e di altre regioni. Quando si sentono espressioni del tipo: Si kle”, njé thithuré klumésht, gluha jona', ndonjé glémb?, l’arbéresh, anche quello non colto, ha la percezione di trovarsi di fronte a una varietà linguistica che conserva tratti antichi, il sapore dei suoni arcaici. L'arbéresh più colto che ha spaziato nei testi più antichi della lingua albanese rintraccia con facilità forme analoghe nel libro a stampa più antico scritto in albanese, il Meshari di Gjon Buzuku del 1555, kle dérguom?, klishet shenjte'°; té jetèsé glaté'': e poco più tardi nel 1592 le ritrova in un testo arbéresh di Piana degli Albanesi (PA), ossia nell'opera di Luca Matranga, E mbsuame e kréshteré, con gli stessi fenomeni fonetici: kle véné'2, klisha shejté'?, té glarè"*. In altre varietà dialettali meno conservative i succitati nessi si sono palatalizzati rispettivamente in / ql e /gj/: gish'° gjuh'5, una chiara innovazione rispetto alle precedenti. Accanto a questi, ricorrono, nella parlata di Maschito, altri nessi pure conservativi, /bl/, /pI/, /fl/, /Ik/, /Ib/: mbledhé”, plot??, fletaté”°, ulkun®, anche questi palatalizzati rispettivamente in /bj/, /pj/, /fi/, /jk/, /jb, in altre parlate arbéreshe, con puntuale corrispondenza in Buzuku: plaké? shelbuomité?? e in Matranga: mbéljedhurité®, shpreblieré”.
Altro tratto arcaico della parlata di Maschito è la conservazione della vocale debole media centrale /é/ in posizione sdrucciola o addirittura bisdrucciola: suvalaté2, bakuaré®, lulashé”, qaramidhévaté” anche in questo caso come continuazione dell'antica tradizione, documentata da Buzuku: dishipujté®, dashuné®, ordhénéné'; e da Matranga: apostolité?, mbeturé®, lévduamesé*.
Tuttavia anche la parlata di Maschito, come tutte le forme linguistiche vive, lungo il corso dei secoli, è andata soggetta ad evoluzione e a innovazioni. Ne elenco solo quelle più rilevanti per una lettura agevole dei testi poetici che seguono e che riflettono fedelmente i mutamenti avvenuti: 1) palatalizzazione della laterale alveolare /I/ in IN, per cui il termine lis va letto Xis (in italiano: glis); 2) processo in atto di evoluzione della laterale dentale sonora /II/ prevalentemente in fricativa sonora uvulare /y/ ma con molte tracce di laterale alveolare sonora /I/: per rappresentare il primo esito l'Autore nella riproduzione grafica dei testi ha adottato il digramma gh, mentre per il secondo Il, per cui ricorre tanto kémighi*, trubughuara”, gjegh®, quanto hingéllon®, vetullat, mjegull; 3) passaggio della vocale media anteriore /e/ nella vocale bassa centrale /a/ in posizione pretonica e postonica: manaté' < menaté, bakuaré* < bekuaré, sonda" < sonde, tura" < ture, zogjéva* < zogjéve; come pure nei monosillabi ta* < te, ma* < me; 4) passaggio della vocale media centrale /è/ in lal in posizione postonica: émbal'8 < émbél, afar**< afér, duftonam® < duftonem. Segnalo anche un fenomeno in atto di passaggio della fricativa interdentale th in s: sumzat9' < thumzat, o nell’uvulare h: hérreté5< thérreté; accanto a casi in cui l’interdentale è regolarmente conservata: té thata®; e ancora la riduzione del dittongo ua in u: hujtin® < huajtin. Anche in morfologia si incontrano occorrenze di innovazione: 1) la tendenza dei nomi maschili a formare il plurale con l'aggiunta della desinenza —a che, per analogia al femminile, porta a un mutamento del genere grammaticale, facilmente verificabile nella concordanza degli aggettivi: ulka t'egra”, mota té shkuara®, ujra tè ftohta”, glishtra t’glata&, mura t'reja®; non mancano nella formazione del plurale forme di ipercaratterizzazione®® sempre con l'aggiunta della desinenza -a, o -ra: véghazéra®!, plegra®, nevra® 2) l'assenza dell'alternanza vocalica nella flessione di alcuni verbi je / 0, con la forma dell’aoristo in pjela® e non polla; 3) l'inserimento nell'aoristo dell'infisso -jt- fra tema e desinenza al posto del -v-: pushtrojti®.
La lingua di Maschito, lasciata per secoli alla mercè della oralità e quindi priva di sostegni scolastici, sta approdando a forme aberranti con tendenza al sincretismo dei casi per insistenza del fenomeno dell’analogia. Si verifica una sorta di incrocio tra il caso nominativo e accusativo, ora con l'eliminazione dell'articolo in caso accusativo: luftova armiku i padukshim® dove si richiederebbe armikun in quanto in accusativo, ora con l'assunzione dell'articolo dell'accusativo anche al nominativo: kéndon cinxérran®” dove si dovrebbe avere cinxérra perché in caso nominativo, e così si incontrerà al nominativo la forma kukuvazhan®, besan®, presenti anche come titoli di rispettive liriche, analogamente a gluhan a mémés. L'instabilità si verifica anche con le preposizioni che non reggono i casi che erano generalmente consolidati e normativi; così si incontrano forme aberranti del tipo: mbi ki shkémb”, oppure mbi kurmi", mbi kurmi i saj'2, mbi préhri saj”*; e viceversa preposizioni col nominativo che li troviamo seguiti dall'accusativo: marrur nga gjeghan”. Questi fenomeni ormai consolidati nell'eloquio quotidiano sono stati accolti con diritto di cittadinanza dall’Autore, sulla base del principio di non interferire più di tanto nella lingua che ancora oggi parla la gente.
Ugualmente il Poeta non ha apportato alcuna normalizzazione nella varietà d'uso dei sintagmi che vedono la successione di due sostantivi, di cui il secondo in caso genitivo, e di un sostantivo seguito da un aggettivo articolato. In entrambi i casi possiamo incontrare l'assenza dell'articolo di congiunzione: praku derés’, suvala eréès”, kurmi pérulur” che trova testimonianza anche nei testi più antichi, come in Matranga: thelimésé tinézot”’, psuarit ti, oppure l'uso difforme nella flessione dell'articolo di congiunzione: dimérit i panjohur®, me njé vrizhull i hoghé®', al posto delle forme codificate dimrit té panjohur e me njé vrizhull té hoghé.
Nel campo lessicale il Campera ha valorizzato tutto il patrimonio albanese ancora vivo, ha sfruttato la flessibilità che hanno i radicali dell'albanese per il tramite della suffissazione, ed si è mostrato poco generoso nei confronti dei prestiti italiani, mentre in casi del tutto sporadici ha fatto ricorso a termini della lingua standard. L'impostazione che il Poeta si è dato risponde alla visione culturale- linguistica che egli ha delle comunità albanesi d'Italia. La cultura arbéreshe, in altri termini, lungo i cinque secoli di permanenza nel contesto italiano è andata definendo la sua identità: nell'ambito letterario ha prodotto Opere che si connotano per tratti che risentono di influenze occidentali, in prevalenza italiane, ma che mantengono la linfa proveniente dalle radici albanesi; anche in quello linguistico sono presenti gli effetti del contatto con la lingua italiana, avvertibili soprattutto nel settore lessicale, dove radicali italiani si sono inseriti nel sistema linguistico della lingua albanese, acclimatandosi talora così bene da tradire la stessa origine; solo in tempi recenti tale acclimatamento diventa sempre più labile lasciando posto addirittura a forme mistilingui.
La cultura arbéreshe attuale ha una configurazione che si differenzia certamente dalla cultura italiana, ma anche da quella albanese d'Albania, da cui la distinguono cinque secoli di separazione, e mantiene, quindi, suoi connotati che sono unici e che sono il risultato della sua evoluzione storica.
La silloge di poesie del Campera per le immagini che riflettono frammenti preziosi di una cultura secolare, capaci di parlare ancora all'uomo d'oggi, per quell'armonia dei suoni di una lingua arcaica e al contempo innovata, rappresenta un contributo pregevole alla conoscenza di un mondo passato ma ancora presente, e un monumento linguistico della parlata di Maschito, finora nota solo a livello orale.
Prof. Italo Costante Fortino Ordinario di Lingua e letteratura albanese Università di Napoli “L'Orientale”
1 Giulio Varibobba, La vita di Maria, Prolegomeni, trascrizione, traduzio- ne, glossario e note di Italo Costante Fortino, Edizioni Brenner, Cosenza, 1984.
2 Rapsodie d’un poema albanese raccolte nelle Colonie del Napoletano,
tradotte da Girolamo De Rada e per cura di lui e di Niccolò Jeno De’
Coronei ordinate e messe in luce, Firenze, Tipografia di Federico Bencini, 1866.
3 Girolamo De Rada, / canti di Milosao, a cura di G. Gradilone, Olschki, Firenze, 1965; Idem, / canti di Srafina Thopia, a cura di F. De Rosa, Pelle- grini, Cosenza, 2003.
4 Per l’opera completa vedi: Vorea Ujko, Opera letteraria, Studio introdut- tivo di I. C. Fortino, cura dei testi di A. Giordano, Traduzioni di C. Zuccaro, Editrice ‘il coscile’, Castrovillari, 2004.
5 Cfr. poesia U prora, p. 6 Cfr. Gluhan a mémés
7 Cfr. Hora ima védes
8 Cfr. Drita shpirtit
9 Egrem Cabej (a cura di), Meshari i Gion Buzukut, Pjesa e dyté, Tirané 1968, p. 33
10 /bidem, p. 17
11 /bidem, p. 25
12 Matteo Sciambra (a cura di), La “Dottrina cristiana” albanese di Luca Matranga, Città del Vaticano, 1964, p. 31
13 Ibidem, p. 19
14 Ibidem, p. 27
15 Novellistica italo-albanese, Testi raccolti da Luca Perrone, Firenze, Olschki, 1972, p. 24
16 Ibidem, p. 17
17 Cfr.Ari kaghivat
18 Cfr. Dheu imé
19 Cfr. U prora
20 Cfr. Besan
21 Egrem Gabej (a cura di), Meshari..., p. 81
22 Ibidem, p. 85
23 Matteo Sciambra (a cura di), La “Dottrina cristiana”..., p. 111 24 Ibidem, p. 111
25 Cfr. Fanari
26 Cfr. Hora ima védes
27 Cfr. Ari kaghivat
28 Cfr. Kukévazhan
29 Eqrem Çabej (a cura di), Meshari..., p. 259
- Jem
Ibidem, p. 261
} Matteo Sciambra (a cura di), La “Dottrina cristiana”..., p. 23 13 /hldem, p. 29
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38 Cfr. Grua shgiptara
39 Cfr. Thronushi gurashé
40 Cfr. Mjegullan
41 Cfr. Kopshtari
42 Cfr. Hora ima védes
43 Cfr. Pèr nderin tè i ndélimi tatés 44 Cfr. Kukuvazhan
45 Cfr. Rrishinjualli
46 Cfr. Idem
47 Cfr. Kukuvazhan
48 Cfr. Per nderin tè i ndélimi tatés 49 Cfr. Sumzat
50 Cfr. Drita shpirtit
51 Cfr. Sumzat
52 Cfr. Grua shqiptara
53 Cfr. I urti shkrimtar
54 Cfr. Hora ima védes
55 Cfr. Tura aghuguar
56 Cfr. Besan
57 Cfr. Kroi arrés
58 Cfr. Arpa Vixhanit
59 Cfr. Fanari
60 I. C. Fortino, Mutamenti linguistici in una parlata arbéreshe: Ipercarat- terizzazione dell’aggettivo plurale maschile, in Variazioni linguistiche in albanese, a cura di A. Landi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2002, pp. 97-110
61 Cfr. Tura agughuar
62 Cfr. U prora
63 Cfr. Pér nderin tè i ndélimi tatés
64 Cfr. Hora ima védes
65 Cir, Besan
600 Ch Per njé grua 67 Cr / urti shkrimtar GN CI Atkuvazhan DU CI, Men
70 Cfr. Fanari
71 Cfr. I urti shkrimtar 72 Cfr. Lindja
73 Cfr. Lindja
74 Cfr. Kroi arrés
75 Cfr. Sumzat
76 Cfr. Nga atej dejtit 77 Cfr. I urti shkrimtar 78 Matteo Sciambra (a cura di), La “Dottrina cristiana”..., p. 65 79 Ibidem, p. 71
80 Cfr. / urti shkrimtar 81 Cfr. Kroi arrèé