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Riflessioni sulla cittadinanza: un equilibrio tra identità, cambiamento e alterità   di Claudia Pace

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Riflessioni sulla cittadinanza: un equilibrio tra identità, cambiamento e alterità    di Claudia PaceParlare di cittadinanza presuppone una scelta. Limitarsi a circoscrivere ciò che tecnicamente viene inteso per cittadinanza, da un punto di vista giuridico, oppure dare spazio a tutto ciò che è interrelato con questo argomento e concetto, attraversato così ampiamente da fili identitari, culturali, storici?

Questa valutazione non è scontata ed anzi oserei dire che è proprio la parte più importante di questo articolo.

Infatti, riportare il requisito di cittadinanza in un ambito meramente tecnocratico rischia di svuotarlo, di farne una scelta politica che non è relazionata con la realtà.

Invece, considerare il concetto di cittadinanza per come viene vissuto quotidianamente, vuol dire entrare in una matassa dove si trova un po’ di tutto, ma che segue il movimento umano, che può poi riconoscersi nella forma giuridica e istituzionale.

La definizione sociologica di cittadinanza mette in luce il senso di appartenenza ad una comunità.

La definizione giuridica descrive come la cittadinanza comporta una condizione di pienezza dei diritti civili e politici. Non solo doveri- a differenza della sudditanza.

I diritti quindi vengono riconosciuti dallo Stato al soggetto in quanto cittadino, vale a dire alla persona appartenente ad uno Stato. Da qui la differenza con i soggetti stranieri e gli apolidi, ai quali vengono attribuiti solo quei diritti “essenziali”, universali, accordati tra i vari Stati attraverso pattuizioni internazionali, o attraverso scelte politiche di integrazione degli immigrati presenti sul territorio nazionale.

Nell’antica Roma, il diritto romano riconosceva come cittadino il soggetto che aveva innanzitutto lo status civitatis (era di Roma), ancora lo status libertatis (non era schiavo), ed infine lo status familiae (era padre di famiglia): questi tre stati rendevano l’uomo libero.

Il sociologo inglese Thomas Marshall dava nel 1950 voce a quella che può essere, ancora oggi, una visione molto diffusa di cittadinanza: lui sosteneva che divenire uguali significa divenire cittadini.

Questa visione però porta un’uguaglianza basata su una disuguaglianza, su una differenziazione con chi non lo è (cittadino e quindi uguale) che non potrà mai essere un’affermazione positiva, in quanto  enunciato autoreferenziale.

Il senso di appartenenza è però molto presente nel concetto di cittadinanza.

Questo legame può essere storico, ideologico culturale, oppure anche territoriale.

Molto spesso si sente dire: ma quella persona è un italiano, inglese, tedesco, albanese, per indicare alcune caratteristiche di un determinato popolo.

Infatti, tra i valori sottesi al concetto di cittadinanza vi sono sicuramente i valori identitari nazionali. A tal proposito, come dice Remotti nel suo libro “Contro l’identità”, c’è un senso di identità irrinunciabile, ma “di sola identità si muore”.

Inoltre, parlando di cittadinanza sorgono dei problemi di “percezione” della stessa.

Perché, se da una parte, ognuno di noi, per la maggior parte, si sente e si riconosce cittadino di un determinato posto, dall’altra, prova anche l’esigenza di abitare altri luoghi, come anche nel fare della vita ha occasione di sviluppare il centro di interessi in un altro paese. E’ un’ occasione questa di compiersi per l’uomo, connaturata nella sua essenza di identità in formazione. Ma cosa succederà in questa nuova terra? Si diverrà cittadini? Il soggetto rimarrà sempre uno straniero? La legge del posto gli permetterà di “naturalizzarsi” con quella nuova terra?

Infatti un altro valore importante riconosciuto attraverso la cittadinanza è quello del legame territoriale. L’uomo tra i suoi necessari spazi vitali include anche un’area molto più vasta rispetto alle altre, definita “area totale”, che può essere identificata con lo Stato nazionale. La nazione rappresenta l’ultimo confine territoriale con il quale l’uomo si identifica, prima di entrare nella forma mondiale universale. Quest’area raggruppa - dovrebbe raggruppare- al suo interno tutte le altre aree ( quali ad esempio il territorio-casa, l’home range-quartiere, città), e quindi mantiene le funzioni proprie di approvvigionamento e difesa come anche un’area esterna e libera, definita come area di esplorazione. Numerose sono le norme che disciplinano e tutelano il territorio ed i suoi cittadini, anche da illegittime invasioni esterne.

Ma vediamo ora come si risolve in diritto la questione della cittadinanza.

Questo requisito è molto importante perché i cittadini, vale a dire il popolo sono un elemento costitutivo dello Stato. La definizione moderna di Stato si basa infatti sull’elemento personale del popolo, l’elemento spaziale del territorio, e l’elemento organizzativo della sovranità.

A questo concetto di cittadinanza si ricollega la titolarità di determinati diritti, tra i quali si distinguono i diritti civili, cui corrispondono obblighi di non fare da parte dello stato (a cui corrispondono diritti come la libertà personale, di movimento, di associazione, di riunione, di coscienza e di religione, l'uguaglianza di fronte alla legge); i diritti politici, relativi alla partecipazione dei cittadini al governo dello stato sia direttamente (attraverso istituti quali il referendum) sia indirettamente, eleggendo i propri rappresentanti; i diritti sociali, cui corrispondono obblighi di fare, di erogare prestazioni, da parte dello stato e dei pubblici poteri (il diritto alla salute, il diritto al lavoro, il diritto all'istruzione e così via.).

Occorre sottolineare che negli stati odierni i diritti civili sono ormai riconosciuti anche ai non cittadini, e tale riconoscimento è di solito sancito a livello costituzionale, mentre i diritti sociali e soprattutto quelli politici tendono ancora ad essere legati alla cittadinanza.

Ogni ordinamento stabilisce le regole per l'acquisizione e la perdita della cittadinanza. In molti stati la regolamentazione ed i principi sono dati a livello costituzionale, in altri invece, tra i quali l'Italia, la disciplina è interamente demandata alla legge ordinaria.

In generale, la cittadinanza si può acquisire in virtù dello ius sanguinis (diritto di sangue), per il fatto della nascita da un genitore in possesso della cittadinanza, e presuppone quindi una concezione della cittadinanza imperniata sull'elemento della discendenza o della filiazione; oppure, la cittadinanza può essere attribuita per ius soli (diritto del suolo), per il fatto di essere nato sul territorio dello stato, indipendentemente dalla cittadinanza posseduta dai genitori.

Ci sono poi altre modalità di riconoscimento della cittadinanza, con funzione integrativa. A esempio, a seguito di matrimonio con un cittadino, per riconoscimento o dichiarazione giudiziale di filiazione, per adozione (cd. iure communicatio); per beneficio di legge, allorché, in presenza di determinati presupposti, la concessione avvenga in modo automatico, senza necessità di specifica richiesta; infine, per "naturalizzazione”.

Ma la scelta fondamentale, ideologica, è quella tra ius sanguinis e ius soli.

L'adozione dell’una piuttosto che dell'altra opzione ha rilevanti conseguenze. Infatti, riportandomi alla voce di Wikipedia sulla cittadinanza, lo ius soli comporta più facilmente l'allargamento della cittadinanza ai figli degli immigrati nati sul territorio dello stato: ciò spiega perché sia stato adottato da paesi (Stati Uniti, Argentina, Brasile, Canada ecc.) con una forte immigrazione, ma anche un territorio in grado di ospitare una popolazione maggiore di quella residente. Invece lo ius sanguinis tutela i diritti dei discendenti degli emigrati, ed è dunque spesso adottato dai paesi interessati da una forte emigrazione, anche storica (Armenia, Irlanda, Italia, Israele), o da ridelimitazioni dei confini (Bulgaria, Croazia, Finlandia, Germania, Grecia, Italia, Polonia, Serbia, Turchia, Ucraina, Ungheria).

Attualmente la maggior parte degli stati europei adotta lo ius sanguinis, con la rilevante eccezione della Francia, dove vige lo ius soli fin dal 1515.

Per quanto attiene alla cittadinanza italiana, questa è regolata dalla legge 5 febbraio 1992, n.91  e successive modifiche e integrazioni, e dai regolamenti di esecuzione.

La legge 91 del 1992 è basata principalmente sullo "ius sanguinis" (diritto di sangue), per il quale il figlio nato da padre italiano o da madre italiana è italiano,  ed indica il principio dello ius sanguinis come unico mezzo di acquisto della cittadinanza a seguito della nascita, mentre l'acquisto automatico della cittadinanza iure soli continua a rimanere limitato ai figli di ignoti, di apolidi, o ai figli che non seguono la cittadinanza dei genitori.

I principi su cui si basa la cittadinanza italiana sono pertanto: la trasmissibilità della cittadinanza per discendenza “iure sanguinis”, l’acquisto “iure soli” in alcuni casi, la possibilità della doppia cittadinanza, la manifestazione di volontà per acquisto e perdita, quali l’ assunzione di un impiego o prestazione di servizio militare presso uno stato estero che in quel momento si trova in stato di guerra con l’Italia.

E’ inoltre interessante notare che la cittadinanza italiana è riconosciuta anche ai soggetti che siano stati cittadini italiani (e ai loro figli e discendenti in linea retta di lingua e cultura italiana), già residenti in territori facenti parte dello Stato italiano successivamente ceduti alla repubblica Juigoslava.

Detto quanto sopra, appare evidente come si generi una situazione abbastanza complessa.

Da un parte, vediamo che la disciplina della cittadinanza può tener conto degli spostamenti territoriali che avvengono durante la vita.

Poi, però, rimane il confine con lo straniero, con l’essere straniero e con l’accogliere lo straniero nel proprio Stato, confine sempre più sempre labile e in movimento.

Penso pertanto che oggi sia molto facile fare confusione sul concetto di cittadinanza. O meglio, attraverso la cittadinanza/ non cittadinanza passano anche concetti che forse dovrebbero avere una struttura diversa e che riguardano i diritti dell’uomo in quanto tale.

Innanzitutto, ci sentiamo cittadini? E cosa comporta questo? Automaticamente un’esclusione? Io sono cittadino, tu no! Detta così, questa affermazione sembra quasi un’offesa. In realtà, è tutto frutto di una grande ipocrisia.

Come avvertiamo gli stranieri in questo? Come ci avvertiamo nell’escludere uno straniero?

Quando siamo di fronte a politiche assistenziali che aiutano maggiormente gli stranieri, di fatto, ci sentiamo privati delle nostre priorità di cittadini. Questo perché le forme assistenziali, l’ospitare tout court, difficilmente aiutano l’integrazione, in realtà tengono a distanza, non creano un vero legame all’interno della società, quando invece è proprio l’aspetto di integrazione, la relazione la prima         base del convivere, della socialità, dell’appartenenza, della possibilità di vivere ( e sottintendo    bene ) in un luogo.

Ma come conciliare il requisito di cittadinanza al riconoscimento dei diritti ai non cittadini?

C’è un passo de “ Gli specchi di Gulliver di Marco Aime, che mi ha fatto riflettere proprio su questo “ Quando Joseph de Maistre, con innegabile cinismo ed altrettanta franchezza, diceva: “Io conosco dei francesi, degli inglesi, dei tedeschi, non conosco uomini”, voleva dire che gli individui, in fondo, possiedono o no dei diritti in quanto cittadini di un certo stato. In seguito a quel processo che Giorgio Agamben definisce “biopolitica dello stato moderno”, i diritti dell’uomo, intesi in senso universale, vengono soppiantati da quelli del cittadino, sottoposti alla sovranità nazionale con una finzione che trasforma la nascita in nazione. Non sto sostenendo che ciò sia giusto, ma è vero che i diritti dell’uomo, in quanto tali, sono per ora una sorta di pio desiderio, espresso in una dichiarazione e condiviso da molti, ma che di fatto non si può applicare, in quanto nessun organismo legislativo internazionale è preposto a farlo. Esiste il Tribunale dei diritti umani, ma ha poteri limitati e non tutti gli stati vi aderiscono ( inclusi, per esempio, gli Stati Uniti ). Se abbiamo dei diritti è perché c’è uno stato democratico, che ce li garantisce; se non li abbiamo è ancora uno stato, antidemocratico e totalitario, che ce li nega”. (…)

Forse quindi il requisito di cittadinanza va fatto passare attraverso il requisito dell’Umanità, che presuppone differenza, il saper cogliere la differenza identitaria. E quindi arriviamo a porre in discussione (o in relazione) il concetto stesso di cittadinanza, passando al concetto di umanità. Ed raggiungiamo a questo punto un limite, che è proprio quello del riconoscimento dei diritti attraverso la forma dello Stato.

Sembra quasi di giungere ad un punto paradossale: o si cambia la funzione dello Stato in questo senso ed il senso di cittadinanza, o così com’è lo Stato governa i cittadini.

Ma il valore della cittadinanza può appoggiarsi pienamente anche ad un’ottica integrativa dello straniero, se nel far questo si abbraccia la sua dimensione dinamica, e soprattutto relativa, di essere prima di tutto uomo.

Così, se i requisito della cittadinanza è proprio dell’essere umano, in particolare delle sue imprescindibili necessità identitarie, è pure vero che nella sua valutazione sociale, normativa e politica, si deve tenere in considerazione il continuo flusso del singolo uomo, e le continue connessioni e interrelazioni che avvengono nelle terre da lui abitate.

KERKO

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