Intervista a Saimir Muzhaka
Saimir Muzhaka autore del romanzo “la città vecchia”. «Nella nostra società convivono cristiani, musulmani, atei, e agnostici. Abbiamo molte famiglie miste perché la libertà di culto e di pensiero è un valore condiviso da tutto il popolo»
Muzhaka, al centro del suo libro riscontriamo il rapporto madre- figlio, caratterizzato, pare di capire, da una certa ambiguità. Il confine tra affetto e coercizione è davvero tanto labile?
Affetto ( e amore in generale) e coercizione sono due concetti completamente diversi, quanto il giorno e la notte, e questo vale per qualsiasi relazione, compresa quella genitore- figlio. Un sentimento forte ed intenso come l’amore, del quale si è cantato dall’alba dei tempi e si continuerà a farlo fino all’ultimo respiro, non potrebbe convivere con la coercizione, pena la fine, vicina e amara, del rapporto. Questo, tuttavia, non vuol dire che, in molte relazioni, non capiti di scorgere questi sentimenti uno di fianco all’altro: il confine tra i due diventa molto labile. Proprio questo confine, facilmente valicabile nel rapporto madre- figlio, mi ha spinto a scrivere La città vecchia, quando avevo più o meno l’età di Geraldi, uno dei personaggi del libro.
Dalla bocca di una madre di Berat ho sentito per la prima volta la parola pëshim (” la minditta”), vocabolo che mi è suonato strano e che non ho trovato in nessun dizionario di lingua albanese. Con stupore ho scoperto il significato di questo termine: l’amore di una madre, il più grande e sincero nel mondo, poteva trasformarsi in coercizione. “Una madre ama e deve amare senza condizioni il figlio, però il suo cuore potrebbe parlare la lingua del castigo e nessuno dovrebbe giudicarla, se prima non considera le circostanze in cui ha preso vita”, mi ha detto quella madre qualche giorno prima che scrivessi la prima frase del mio romanzo. Si potrebbe considerare blasfema una storia simile? «No, no», mi ha risposto la donna, alla quale quella parola risultava tanto familiare quanto a me estranea. Secondo lei, anche Dio impartisce una lezione simile quando ci dice: «Amami, che ti porto in paradiso!». La città vecchia va oltre questo, spingendosi dall’abbandono crudele ai sogni dei giovani, dalle tradizioni degli anziani alla mutazione dovuta allo scontro del vecchio con il nuovo.
Quanto conta l’ambientazione – in questo caso la città albanese di Berat – in relazione a una struttura narrativa specifica e a suo modo normata come il noir?
Non mi piace conformarmi a un genere specifico o a una particolare restrizione letteraria: tali delimitazioni spettano agli studiosi e ai critici. Credo nello stile, che riesce a tracciare meglio la distinzione tra un libro e l’altro. Indubbiamente, un romanzo è il prodotto del tempo e del luogo, per cui anche La città vecchia non sarebbe tale, oppure non esisterebbe affatto, se dietro a ogni sua riga non fosse nascosta Berat e la sua gente. Questa città è lo spirito del libro. Spesso e volentieri la storia dell’antichità viene raccontata attraverso le città morte, mentre la mia citta, Berat, tuttora viva, getta luce sul passato e cerca di spiegare il futuro.
Nel suo romanzo, al male della natura – effigiato in tal senso dalla memoria del terremoto – corrisponde il male degli uomini. Le pieghe di una narrazione prevalentemente realistica nascondono dunque suggestioni metafisiche?
Le reminiscenze degli accadimenti naturali sono frequenti nell’uomo. Questi legami tra natura e uomo si possono distinguere con maggiore chiarezza nelle piccole città, laddove la vita, come nel caso delle metropoli, non segue ancora i ritmi frenetici dello sviluppo dell’industria e della robotica. La città di Berat cela la mistica nella sua essenza più intima e attraverso questa mistica antica si staglia contro la modernità. È una città dove la scienza viene spesso sostituita da metodi non scientifici, che tentano di scoprire e di spiegare i fenomeni della realtà, spesso al di fuori del processo evolutivo del tempo. L’esperienza degli avi diventa così “la scienza”, che fornisce risposte su tante cose, perfino sui riflessi metafisici.
In alcune pagine tratteggia scene – sovente grottesche e inclementi – di politica locale. Non tiene in grande considerazione la politica attuale?
La politica in Albania assomiglia ai mostri delle favole che ingoiano famelici qualsiasi cosa vi si pari davanti. Produce ogni giorno personaggi grotteschi. Non solo nel mio Paese ma, credo, anche nel suo la gente è insoddisfatta degli uomini al potere che, da un punto di vista surreale, sono proprio quelli che, in fin dei conti, abbiamo scelto noi. Comunque sia, esiste in Albania un malcontento ancora più forte, come viene confermato anche dall’alto numero di persone che, a partire dal 1990 ad oggi, hanno lasciato e continuano a lasciare il Paese. Solo in Italia lavorano e vivono piu di 500 mila albanesi, mentre molti altri sono emigrati in Grecia e altrove. Recentemente capita raramente di trovare medici e infermieri giovani che non stiano seguendo un corso di lingua tedesca, con la speranza di poter ottenere un visto di lavoro in Germania. Molto presto gli ospedali subiranno una seria carenza di personale, un problema di cui si parla ancora poco. Si svuoteranno le città e i paesini, mancheranno gli insegnanti, gli allievi, gli intellettuali, gli artigiani, i professionisti, i consumatori e così via. Rimarranno solo “i mostri”, perché quelli non vanno via, essendo troppo ignoranti per tirarsi indietro, come invece spesso scelgono di fare le persone intelligenti.
Lei scrive a proposito «delle chiese e delle moschee che convivono come le dita di una mano», rilevando forme di convivenza religiosa non scontate in un’epoca, come la nostra, caratterizzata da forte conflittualità. Ritiene esse che rappresentino un buon modello di integrazione?
Nel mio Paese vi sono atei, fervidi seguaci della religione e, in misura ancora maggiore, agnostici. Una buona parte delle comunità identifica la propria appartenenza religiosa più come un “hobby” che come un vero e proprio impulso che sorge dalla coscienza. Nonostante ciò, tutti si scambiano volentieri gli auguri in occasioni di ricorrenze religiose e non solo. In tale ambito, considero brillante la pluralità religiosa che offre la società albanese e che non si trova da nessun’altra parte. Nella mia famiglia, ad esempio, si rispetta il digiuno durante il mese di Ramadan, si tingono le uova di rosso per la Pasqua e si prepara l’ashure, il dolce tipico della festa dei bektashi. Non è forse insolito nel mondo di oggi? Non abbiamo a che fare con un caso isolato, poiché questo succede nella maggior parte delle famiglie albanesi. Vorrei aggiungere che a Berat, se ti metti a graffiare l’intonaco dei vecchi muri in tre fasi distinte, scoprirai l’alternarsi dei dominii religiosi, che tuttavia potrebbero essere anche più di tre. Non esiste altra nazione che abbia accettato in questo modo l’alternanza e la conversione religiosa, attraverso la realtà di una storia così complessa. La tolleranza religiosa è un grande valore del mio popolo, del quale dobbiamo essere sempre orgogliosi, specialmente in un’epoca, come ha rimarcato, piena di conflittualità.